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Colmare il Gender Gap in azienda con la certificazione di professionisti consapevoli

Apr. 26 2023

È noto che la situazione generale del nostro Paese sui temi della parità di genere ha ancora molta strada da compiere prima di arrivare a un traguardo soddisfacente. Stando, infatti, ai dati del molto citato Global Gender Gap, l’indice utilizzato dal World Economic Forum, l’Italia occupa una posizione piuttosto arretrata: 63esima, appena dopo Uganda e Zambia. Germania, Francia e Spagna si collocano tra il 10° e il 17° posto. Meglio di tutti, invece, i Paesi del Nord Europa.

Eppure qualcosa si sta muovendo. Due esempi. Il primo si riferisce a un’indagine condotta dal Corporate Governance Lab della SDA Bocconi, secondo cui la quota detenuta da donne nei gruppi industriali italiani familiari con fatturato superiore ai 100mln di euro ha toccato il 27,1%. Una percentuale che non ha mai smesso di crescere negli ultimi 15 anni – soprattutto fra le società non quotate – e che potrebbe, secondo stime verosimili, arrivare al 44,5% nel 2040. Non solo. Il dato interessante riguarda la percentuale delle aziende non quotate controllate da donne: dal 2005 al 2020 è passata dal 9,8% al 17%.
Ancora. Nel 2022, sono state 20 le aziende italiane incluse nel Gender Equality Index, un indice – per l’appunto – che l’americana Bloomberg elabora annualmente con lo scopo di valutare il grado di inclusività e di parità di genere delle aziende a livello globale. Su 620 società analizzate, 484 hanno ottenuto un punteggio sufficiente per entrare in questa classifica. La valutazione è fatta in base alla presenza e valorizzazione femminile nelle aree relative alla leadership e talenti, parità di retribuzione e di genere, cultura inclusiva, politiche contro le molestie sessuali e percezione esterna del brand. Le 20 italiane sono tutte grandi compagnie, alcune da tempo attente alle questioni ESG e, in particolare, impegnate sul fronte della parità di genere.

Ma perché la parità diventi una condizione diffusa e stabile servono almeno due componenti. Innanzitutto, per attivare prima e completare poi i cambiamenti richiesti dalle politiche di Diversity & Inclusion c’è bisogno dell’ingrediente tempo. Ed è infatti grazie a un lavoro continuato e prolungato che solitamente si raggiunge una trasformazione in grado di durare. Ma non solo. Al tempo bisogna aggiungere un altro elemento, ugualmente decisivo: la profondità. Sono infatti i meccanismi culturali profondi e ben interiorizzati negli individui quelli che possono portare all’assunzione di pratiche in cui la parità di genere diviene abitudine condivisa e non eccezione virtuosa.

E le persone – si sa – sono straordinari veicoli di cambiamento. È da esse che si deve passare se si desidera raggiungere traguardi ambiziosi com’è quello rappresentato dalla parità di genere. E tra gli ambiti della vita sociale in cui questo ragionamento vale, vanno annoverate senza dubbio le aziende quali luoghi in cui – spesso – si manifestano situazioni di ineguaglianza e discriminazione tra generi. Dai salari più bassi, all’accesso negato a taluni ruoli, fino al determinarsi di veri e propri episodi di abusi e violenza.

In tale contesto, la certificazione di competenze di professionisti in D&I può dare sia un’accelerazione sia un ordine a questi processi di cambiamento. Parliamo di risorse che devono essere adeguatamente formate e che possono da oggi accedere anche ad un percorso di valorizzazione delle proprie competenze professionali. CEPAS, società del gruppo BV, ha infatti strutturato uno schema che definisce le conoscenze abilità e competenze dei D&I Professionals, figure che supportano le aziende nel loro processo di evoluzione e miglioramento. In sintesi, il processo funziona così: verificati i requisiti d’accesso, il professionista si sottopone ad un esame e – ad esito positivo – ottiene un certificato personale e viene altresì iscritto al registro pubblico CEPAS come D&I Professional certificato.  

Mai come oggi, epoca in cui i temi della D&I hanno acquisito visibilità, si corre il rischio tanto di scivolare verso la banalizzazione degli stessi come di far prevalere il “dichiarato” al “realmente fatto”. Ne è convinta Maria Cristina Bombelli, owner di Wise Growth società che insieme a CEPAS ha contribuito a realizzare lo schema di certificazione e che oggi collabora come esaminatrice, con focus specifico sulla parità di genere. Una scelta sempre più condivisa e diffusa, specialmente dopo la pubblicazione della Prassi di Riferimento UNI 125:2022, contenente le linee guida sul sistema di gestione per la gender equality nelle organizzazioni. Gli obiettivi di queste sessioni formative sono pensati per approfondire gli elementi costitutivi di un sistema di gestione della Parità di Genere, acquisire le competenze e gli strumenti per effettuare un self assessment della propria organizzazione in tema di Gender Equality e, ovviamente, conoscere i contenuti della PDR/UNI 125:2022.

Tuttavia, non bisogna credere che questo sia il punto di arrivo. Infatti, come ricorda Mariella Bruno - founder di Diversity Opportunity, altra realtà che collabora con Cepas nell’ambito della certificazione di competenze, avendo collaborato alla realizzazione schema e prestando anch'essa il suo ruolo come esaminatrice- quando si ragiona di D&I forse bisognerebbe cominciare a cambiare approccio, evitando il più possibile di affrontare la diversità come un insieme di cluster tematici nettamente separati (genere, disabilità, orientamento sessuale, religione etc.), ma scegliendone uno “intersezionale”, trasversale. In questo senso, allora, ogni persona assumerà la forma di un’unicità articolata, portatrice non solo di un singolo e predominante carattere, ma di quella che potrebbe definirsi come “patrimonio umano”. E con tutta la probabilità è da qui che le aziende devono partire.

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